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Il priore di Bose Sabino Chialà incontra gli scout bresciani alla Pace

di Gian Enrico Manzoni.

 

Era affollata la chiesa della Pace in città venerdì scorso per una meditazione quaresimale guidata da fratel Sabino Chialà, priore da poco più di un anno della comunità monastica di Bose. Molti i capi scout presenti, invitati dalle loro Zone di attività e dall’associazione degli Amici della Fondazione San Giorgio, organizzatrice dell’evento. Ma tanti erano anche i bresciani non legati al mondo scautistico venuti a sentire una parola illuminante sul tema della “Comunità e servizio”: un abbinamento declinabile da parte del cristiano, com’è evidente, in ambiti diversi della vita di relazione civile ed ecclesiale. Perciò il punto di partenza del relatore ha riguardato proprio la comunità credente che cammina sulle orme di Cristo, non in forma individualisticamente isolata, ma insieme agli altri uomini. Una comunità che svolge un tipo di servizio che trova senso perché è basato su ciò che Gesù ha fatto in noi e per noi.

Gli assistenti ecclesiastici delle due Zone scautistiche Brescia e Sebino della diocesi, rispettivamente don Roberto Ferrari e don Lorenzo Bacchetta, hanno avviato l’assemblea dei presenti alla meditazione oggetto della serata, che ruotava intorno alla lettura della lavanda dei piedi tratta dal vangelo di Giovanni, supportata dal commento di Origene relativo proprio ad alcuni versetti della pericope giovannea.

La riflessione del priore di Bose è stata certamente densa e profonda, ma ha saputo insieme cogliere l’attenzione del pubblico e stimolarne la condivisione. Essa ha delineato il servizio cristiano come durevole nel tempo, all’insegna della fedeltà: nel caso dell’esercizio dell’autorità, che può esplicarsi a diversi livelli e in differenti campi, è proprio la dimensione del servizio a essere la manifestazione della sua autenticità. Tuttavia il servizio cristiano può incontrare, come è avvenuto nella vita terrena di Gesù, l’incomprensione da parte degli interlocutori, almeno nell’immediato, compreso il rischio della solitudine che ne deriva per chi lo propone: la fede non annulla le difficoltà come questa, ma le mette nelle mani di Dio, trovando in questo affidamento una risorsa fondamentale al nostro agire.

Nei confronti del prossimo, il gesto della lavanda dei piedi assume il significato di permettere ai discepoli di poter continuare a camminare, di avere cioè la possibilità di riprendere il cammino interrotto: è il gesto di un vero maestro, ha commentato Sabino. Un esempio per noi viene proprio dalle parole del quarto Vangelo dopo la lavanda, nelle quali Gesù invita i discepoli a fare altrettanto, ma non a lui stesso, bensì agli uomini che ne sono i veri destinatari, sia reciprocamente tra di loro sia verso gli altri. Perciò non è una sollecitazione che indirizza a un’imitazione pedissequa del gesto di Gesù, ma un invito a rifondarlo da parte nostra nella creatività, a reinventarlo nelle forme che la realtà consente.

Il gesto di servizio, che consiste in atti decisi di spoliazione di sé e di abbassamento al livello del prossimo, è liberatorio per chi lo pratica, ridà speranza per il futuro ma dà vita già al presente: infatti nel brano di Giovanni leggiamo che “sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”. Permette dunque di raggiungere una forma di beatitudine nell’immediato, al presente, come un dono a noi subito elargito; tutto ciò che doniamo è guadagno, e l’ultimo esito del dono è la pienezza di vita per chi lo compie. Perciò tale forma di servizio richiede un coinvolgimento profondo della persona, la quale trova forza del suo agire sia dall’umanità che sta servendo, sia dalla relazione col Padre. Anzi, il servizio dà consapevolezza di tale relazione, una consapevolezza che non solo non sottrae nulla alla nostra umanità, ma anzi è capace di accrescerla: ci rende più pienamente uomini e donne e insieme porta i segni del Vangelo.

GIAN ENRICO MANZONI